Ciao a tutte e tutti! Sono Gianfranco, sono un dottorando di ricerca e lavoro al Policlinico di Milano, nel Laboratorio di Tossicologia Ambientale e Industriale guidato da Silvia Fustinoni. Sto per concludere il mio periodo di dottorato, che è stata per me un’esperienza molto arricchente e impegnativa. In questo breve articolo vorrei raccontarvi di una tra le diverse tematiche di ricerca di cui mi sono occupato durante questo splendido percorso.
Il laboratorio in cui lavoro appartiene alla Clinica del Lavoro “Luigi Devoto”, dotata di un valore storico inestimabile: fondata, infatti, agli inizi del 1900, è stata la prima clinica al mondo ad essersi occupata specificamente delle malattie correlate al lavoro. In particolare, il laboratorio di tossicologia si occupa di monitorare a quali sostanze dannose per la salute siamo esposti in determinati ambiti occupazionali. Inoltre, in anni recenti, il laboratorio si è occupato di capire anche a quali composti pericolosi siamo esposti anche in ambiente non lavorativo: da qui il nome “Tossicologia Ambientale e Industriale”.
Ma come si fa a misurare i livelli di esposizione a determinati composti tossici? Ci sono, principalmente, due strategie:
- Tramite un “monitoraggio ambientale”, che prevede la misurazione diretta dei composti tossici a cui potremmo essere esposti, ad esempio, misurando la loro presenza nell’aria che respiriamo, oppure cercandoli nel cibo che mangiamo.
- Tramite un “monitoraggio biologico” (chiamato anche “biomonitoraggio”), che invece è una misura indiretta dell’esposizione perché prevede la misurazione dei composti tossici, oppure di altri composti da essi derivati, in campioni biologici come ad esempio sangue, urina o persino nei capelli. Io ho lavorato utilizzando questo secondo approccio.
Tra le varie sostanze tossiche a cui possiamo essere esposti, sia in certi ambiti lavorativi che in determinati contesti ambientali, ci sono i composti organici volatili (identificati spesso con l’acronimo “COV”). È una grandissima categoria che comprende composti che possono derivare, ad esempio, da processi di combustione e alcuni di questi sono cancerogeni, come il benzene e il butadiene. Essendo “volatili”, è molto facile che entrino nel nostro organismo tramite inalazione. In seguito, il nostro corpo cerca di eliminarli e lo fa modificandoli chimicamente, creando quindi dei “metaboliti”, cioè delle nuove molecole, che sono più facili da eliminare tramite escrezione urinaria, in quanto più solubili in ambienti acquosi.
In particolare, gli acidi mercapturici sono dei metaboliti molto interessanti da questo punto di vista: hanno il vantaggio di essere molto specifici (cioè: un certo acido mercapturico, con grande probabilità, deriva da un ben determinato composto organico volatile), ma hanno anche lo svantaggio di essere presenti in quantità molto basse nell’urina: basti pensare che alcuni di questi sono presenti solo in qualche decina di nanogrammi per litro di urina (un nanogrammo è un miliardo di volte più piccolo di un grammo!). Per poterli misurare, ho utilizzato tecniche di analisi che richiedono strumenti molto avanzati, come la cromatografia e la spettrometria di massa, e sviluppato un metodo analitico molto specifico.
È stato poi condotto uno studio di biomonitoraggio nel quale questi acidi mercapturici sono stati ricercati nei campioni di urina raccolti da un gruppo di fumatori di sigaretta tradizionale, un gruppo di utilizzatori di sigaretta elettronica e anche in un gruppo di non fumatori come gruppo di controllo. I risultati hanno mostrato che i fumatori di sigaretta tradizionale erano esposti ad alti livelli di composti pericolosi, tra cui diversi cancerogeni: su diciassette acidi mercapturici misurati, ben quattordici sono risultati significativamente più alti nei fumatori rispetto ai non fumatori, ed in particolare i metaboliti di benzene e di 1,3-butadiene che sono noti composti cancerogeni.
Nei soggetti utilizzatori di sigaretta elettronica la maggior parte degli acidi mercapturici misurati era simile a quella riscontrata nei non fumatori. Si sono però notate due differenze rilevanti per un metabolita dell’acrilonitrile e per un metabolita dell’acroleina (che sono sostanze classificate come possibili e probabili cancerogeni, rispettivamente): queste due erano significativamente più alti negli utilizzatori di sigarette elettroniche rispetto ai non fumatori (sebbene comunque molto più bassi rispetto ai fumatori di tabacco tradizionale).
Questi risultati contribuiscono a riconoscere il fumo di sigaretta come un’abitudine pericolosa dal momento che comporta una consistente esposizione a sostanze tossiche e mette anche in luce che l’uso di sigarette elettroniche ne è una fonte minore e comporta un’esposizione a sostanze con minor potenziale cancerogeno. Se ne deduce che, in un individuo, un eventuale passaggio da “fumo tradizionale” ad un esclusivo “fumo elettronico” può portare a una diminuzione dell’esposizione a queste sostanze, mentre, per persone non fumatrici, iniziare ad usare questi dispositivi rappresenterebbe un aumento dell’esposizione ad alcuni composti potenzialmente pericolosi.
Gianfranco Frigerio
Dottorando in Epidemiologia, Ambiente e Sanità Pubblica
Dipartimento di Scienze cliniche e di comunità
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