Ciao a tutti, mi chiamo Erika Paolini e sono al primo anno di dottorato in Scienze Farmacologiche, Biomolecolari, Sperimentali e Cliniche presso l’Università degli Studi di Milano, sotto la guida di Massimiliano Ruscica. Il progetto di ricerca si sviluppa in collaborazione con il laboratorio di malattie metaboliche del fegato (Fondazione IRCCS Cà Granda, Ospedale Policlinico Maggiore di Milano) con la supervisione di Paola Dongiovanni (co-tutor). La steatosi epatica non alcolica (NAFLD) è la malattia epatica più diffusa nel mondo che coinvolge circa il 30% della popolazione adulta.
La patogenesi della NAFLD, in quanto multifattoriale, è caratterizzata dall’interazione tra fattori ambientali, epigenetici e genetici che contribuiscono alla progressione da semplice steatosi, steatoepatite non alcolica (NASH) e fibrosi fino a cirrosi ed epatocarcinoma. Durante l‘insorgenza della NAFLD, in risposta ad un elevato apporto calorico, a cui consegue uno stato di insulino resistenza, i mitocondri mettono in atto un meccanismo definito “mitochondrial flexibility” attraverso il quale modificano il loro numero, la massa e l’attività modulando i processi vitali di fusione, fissione e mitofagia.
Tuttavia, la capacità dei mitocondri di rispondere all’accumulo di grasso epatico viene persa durante la progressione della malattia verso la NASH, causando uno squilibrio dei processi di fusione e fissione che si riversa nella biogenesi di mitocondri giganti, definiti “giant”, caratterizzati dalla perdita delle strutture morfologiche interne e ridotta fosforilazione ossidativa (OXPHOS). Inoltre, il calo di mitofagia comporta un accumulo di mitocondri danneggiati che promuovono un aumento di stress ossidativo, apoptosi, infiammazione e rilascio di DNA mitocondriale circolante, il quale risulta essere strettamente correlato ad un danno epatico avanzato, confermando che la perdita della plasticità mitocondriale in termini di morfologia e funzione gioca un ruolo chiave nello sviluppo da semplice steatosi a NASH/fibrosi.
Oltre ai fattori ambientali, anche la genetica gioca un ruolo chiave nell’insorgenza e progressione della NAFLD. In particolare, le varianti maggiormente associate allo spettro di malattia sono i polimorfismi rs738409 C>G nel gene PNPLA3 (Patatin-Like Phospholipase Domain Containing 3), rs641738 C>T nel locus MBOAT7/TMC4 (Membrane Bound O-Acyltransferase Domain Containing 7) e rs58542926 C>T nel gene TM6SF2 (Transmembrane 6 Superfamily Member 2). Questi tre geni sono coinvolti nel rimodellamento dei trigliceridi e nell’assemblaggio e turnover delle lipoproteine.
Il progetto ha lo scopo di valutare la correlazione tra le tre varianti PNPLA3, MBOAT7 e TM6SF2 e la disfunzione mitocondriale in termini di morfologia, dinamicità e funzione in linee cellulari di epatoma (HepG2). Infatti, nonostante la disfunzione mitocondriale abbia un ruolo preponderante nel decorso della NAFLD, l’impatto che questi polimorfismi possano avere sull’alterazione morfologica e funzionale dei mitocondri non è stato ancora investigato.
Mediante l’utilizzo della tecnica CRISPR-Cas9, nel laboratorio di Paola Dongiovanni, sono state generate tre linee cellulari che non esprimevano i tre geni precedentemente descritti. La co-presenza delle tre varianti aumenta il rischio di sviluppare un fenotipo simile alla NAFLD aiutandoci quindi a comprendere meglio i meccanismi molecolari che avvengono nei pazienti. Infatti, la contemporanea presenza delle tre mutazioni nell’uomo si associa a un quadro clinico peggiore.
Con la prospettiva futura di traslare nei pazienti con steatosi epatica non alcolica ciò che abbiamo osservato nei modelli cellulari in vitro, sono stati arruolati 23 nuovi pazienti con NAFLD e stratificati sulla base della presenza delle varianti nei geni PNPLA3, TM6SF2 e MBOAT7 con lo scopo di valutare l’impatto di questi polimorfismi sull’alterazione mitocondriale. Pertanto questo progetto si pone come obiettivo quello di indagare come i fattori genetici possano contribuire alla disfunzione mitocondriale durante la progressione della NAFLD sia in modelli cellulari in vitro che in pazienti.
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