La Farmacia bestiale: perché le api producono la propoli?

“L’uomo è un animale sociale”, affermava Aristotele. Gli etologi, invece, ci insegnano che le api sono degli animali eusociali. Ma cosa significa?

L’eusocialità rappresenta il vertice dell’organizzazione sociale animale e ruota attorno a tre punti cardine caratteristici:

  • suddivisione di compiti altamente specializzati e della capacità riproduttiva fra differenti caste;
  • coesistenza di più generazioni sovrapposte all’interno di una colonia;
  • cooperazione nel mantenimento della colonia e nell’allevamento della progenie, sia propria che altrui.

In un sistema come questo, osservato principalmente fra gli imenotteri (formiche, api, vespe), è peculiare come gli individui appartenenti ad almeno una delle caste perdano la capacità di espletare comportamenti propri di individui di altre caste, tra cui la riproduzione.

Le api domestiche (Apis mellifera Linnaeus, 1758) costituiscono colonie perenni di 40˙000-80˙000 individui, in cui una singola femmina fertile (regina) si circonda di numerose femmine generalmente non fertili (operaie) e di un piccolo numero di maschi fertili (fuchi). L’unità biologicamente significativa non è quindi l’individuo, ma un superorganismo identificato nell’intera colonia, la cui riproduzione avviene per sciamatura nel momento in cui la vecchia regina e circa due terzi degli individui adulti abbandonano la colonia d’origine.

Attribution: Forest & Kim Starr, CC BY 3.0 US <https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/us/deed.en>, via Wikimedia Commons

Il fenomeno dell’eusocialità, a causa dell’esistenza di caste sterili incapaci di trasmettere il proprio patrimonio genetico, ha rappresentato per lungo tempo un paradosso evolutivo, definito dallo stesso Darwin “uno scoglio all’apparenza insormontabile ed invero in grado di annientare questa teoria”, sino all’enunciazione negli anni ’60 della teoria della fitness inclusiva, secondo cui il successo riproduttivo non dipende solo dalla capacità riproduttiva del singolo individuo, ma anche dall’incremento della capacità riproduttiva di chi condivide i propri geni, in particolar modo i parenti più stretti.

Una condizione facilmente soddisfatta dalle api, in cui sussistono particolari rapporti di parentela dovuti alla natura aplodiploide della specie. Le femmine ereditano, infatti, la totalità del patrimonio genetico del fuco padre, ma solo la metà di quello della regina madre, condividendo di conseguenza ben il 75% dei geni, molto più di quanto avrebbero in comune con una progenie propria, e configurandosi come “supersorelle” il cui successo riproduttivo si concretizza nella prosperità della colonia e non nella prole.

Dato un simile contesto, un’attività complessa ed energeticamente dispendiosa quale l’elaborazione della propoli, a cui abbiamo accennato in una precedente occasione, che non fornisce alcun evidente vantaggio individuale per l’ape bottinatrice, non appare più tanto illogica e trova un suo razionale.

La propoli rappresenta, infatti, un prodotto di cui le api sfruttano da una parte le proprietà meccaniche, come materiale da costruzione specificamente destinato alla protezione dell’arnia, e dall’altra le proprietà biologiche, in grado di contribuire all’immunità sociale all’instaurarsi di difese a livello di colonia. Già Plinio il Vecchio (23 d.C. – 79 d.C.), nella sua Naturalis Historia, ne aveva descritto tanto l’origine, da materiali vegetali aromatici e collosi, quanto l’utilizzo da parte delle stesse api per sigillare fessure, proteggersi dalle avversità climatiche, impedire la putrefazione e come rivestimento interno dell’arnia con caratteristiche repellenti per predatori e parassiti. Osservazioni che avevano indotto Plinio, così come Aristotele prima di lui, ad apprezzarne le spiccate proprietà medicamentose, derivanti dalla presenza di resine ricche di metaboliti secondari polifenolici ad azione biocida, prodotti nelle piante da cui derivano con la finalità di proteggere gemme ed apici vegetativi.

Non dobbiamo dimenticare che le api abitano la Terra da oltre 125 milioni di anni, probabilmente da tanto quanto le piante a fiore a cui devono il loro successo e con cui si sono co-evolute: le api dipendono dalle piante per ogni necessità, al contempo le piante fanno affidamento sulle api per la loro impollinazione e devono quindi offrire loro una ricompensa appetibile e salubre, per cui non stupisce che nettari e pollini siano arricchiti in sostanze antimicrobiche.

Le api possiedono un modo del tutto peculiare, ed in gran parte ancora inspiegato, di reperire essudati vegetali ricchi in sostanze biologicamente attive da cui possano trarre un vantaggio. La secrezione di sostanze antimicrobiche è, infatti, piuttosto comune nel regno vegetale, tuttavia sussiste una notevole asimmetria fra il numero delle fonti disponibili e le poche effettivamente sfruttate dalle api per la produzione di propoli. Tale innata predilezione sembra avere una duplice motivazione di natura sensoriale, olfattiva e tattile. Da un lato le api sono attirate dai composti volatili rilasciati da alcuni essudati vegetali, ma dall’altro la possibilità di raccoglierli con le loro delicate mandibole è limitata dalla consistenza. Quel che è certo è che in una determinata regione geografica le api mostrano in genere una preferenza solamente per una o due fonti botaniche. Laddove siano presenti betulle e pioppi, siano essi autoctoni oppure introdotti dall’uomo, costituiscono fonti preferenziali nonostante l’abbondanza di altre specie resinifere. Nelle regioni tropicali, invece, dove il pioppo è assente, le api riconoscono altre fonti di essudati, con un’apparente preferenza per le Fabaceae.

Nella pratica, la precisa composizione della propoli varia in base all’alveare, alla sua localizzazione geografica, alla vegetazione circostante e alla stagione. Nonostante ciò, come già detto le api sono animali piuttosto abitudinari ed opportunisti che tendono a visitare nel corso dell’anno ed in una particolare regione sempre le stesse fonti botaniche, per cui le variazioni stagionali mostrano in genere solo carattere quantitativo. Al di là di questa estrema variabilità in composizione chimica, che pone seri problemi per la standardizzazione del prodotto, ciò che stupisce ed affascina è come la propoli mostri proprietà ecologiche e farmacologiche generali, pressoché costanti ed uniformi in termini di attività antimicrobica. Non ci è dato sapere se e con quanta consapevolezza le api scelgano le sostanze utilizzate nell’elaborazione della propoli, tuttavia questa si presenta come una “supermiscela” di composti bioattivi, evolutivamente selezionati per soddisfare necessità ben precise. Insomma, un esempio lampante di zoofarmacognosia.

La farmacognosia, disciplina che si occupa dello studio delle droghe vegetali e delle loro proprietà biologiche, la conosciamo bene, la zoofarmacognosia, invece, ne è il contraltare che studia i comportamenti di automedicazione degli animali selvatici ed i processi mediante i quali essi selezionano ed utilizzano specifiche piante con proprietà medicinali per il trattamento e la prevenzione delle malattie. Gli esempi in natura sono numerosi. Molte specie di pappagalli, ad esempio, nelle Americhe, in Africa ed in Papua Nuova Guinea ingeriscono caolino o argilla, un comportamento noto come geofagia, per integrare la dieta con sostanze minerali e al contempo adsorbire composti tossici presenti nel tratto digerente.

Attribution: Brian Ralphs, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons

Anche fra gli scimpanzé l’automedicazione è ben documentata. In caso di parassitosi intestinali, i soggetti malati sono soliti masticare il midollo dei giovani getti di Vernonia amygdalina, dopo averne rimosso con cura le foglie e la corteccia. Il succo estremamente amaro che ne ricavano ha potenti effetti vermifughi. Analogamente ai medicinali per l’uomo, la quantità ingerita è relativamente contenuta e gli individui sani non mostrano alcun interesse per questa pratica.

Ma, come nel caso della propoli, la zoofarmacognosia non si manifesta solo in modalità per cui è il singolo individuo a trarne benefico, ma spesso è l’intera colonia ad essere il destinatario della medicazione. A riprova di ciò, gli esemplari di Formica paralugubris incorporano nei loro acervi grandi quantità di resina di conifere con lo scopo profilattico di inibire la crescita di funghi e batteri.

Con un approccio analogo a quello etnofarmacologico, che coniugando studi antropologici, storici e socioculturali studia l’attività biologica di preparazioni tradizionali, l’uomo ha potuto dedurre anche dagli animali il valore medicinale di alcune piante che altrimenti non sarebbero probabilmente state considerate tali. Una lezione di cui fare tesoro, perché in fondo gli animali e l’Uomo cooperano in quella che potrebbe essere considerata la più grande sperimentazione scientifica, l’evoluzione della Vita.


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