La canapa indiana (Cannabis sativa L.), nota anche come marijuana, è una pianta dalle innumerevoli proprietà, alcune delle quali impiegate in ambito farmacologico. La canapa iniziò ad essere coltivata in Asia e Medio Oriente grazie al suo impiego in campo tessile, mentre in Europa la sua coltivazione si diffuse intorno al XVIII secolo, con una produzione commerciale consistente. Per secoli la fibra di canapa è stata la materia prima per la produzione di carta, mentre in Italia ha avuto un ruolo fondamentale durante le repubbliche marinare per la fabbricazione di corde e vele per l’industria navale. Dalle coltivazioni di canapa si otteneva olio (dalla spremitura dei semi) e mangime per il bestiame.
Linneo, nel 1753, denominò la pianta Cannabis sativa, ma diversi sono i nomi con cui è conosciuta in tutto il mondo, come ad esempio: ganja in India, kif in Marocco e in Algeria, hashish in Siria e in Libano, marijuana nel Nord America e macoñha in Brasile.
L’uso di Cannabis come medicamento ha origini antiche, come dimostrato dall’uso riportato nel papiro di Ebers (circa 1550 a.C.). A fine XIX secolo era usata in ambito medico, principalmente come analgesico, ma l’avvento dei farmaci di sintesi e dei derivati dell’oppio ha ridotto drasticamente il suo impiego. La pianta ha ritrovato un nuovo interesse come medicina negli ’70 e ’80, in particolare da pazienti affetti da tumore e AIDS. Demonizzata in tempi recenti a causa degli effetti psicotropi rimane una delle piante più studiate in virtù dei suoi molteplici effetti, sfruttabili in diverse condizioni patologiche, anche grazie alla recente produzione di piante a basso contenuto di Δ9-tetraidrocannabinolo (THC).
Cannabis e i suoi derivati sono costituiti da una significativa varietà di metaboliti secondari. Tra circa 500 composti fino ad oggi identificati, alcuni sono peculiari della pianta, come ad esempio i cannabinoidi, mentre i terpeni sono diffusi in tutto il regno vegetale. I due cannabinoidi più abbondanti sono il THC, composto psicoattivo che può indurre dipendenza psicologica, e il cannabidiolo (CBD).
Il contenuto di metaboliti secondari suddivide la specie in due sottogruppi o chemiotipi. Si distinguono il chemiotipo CBD (caratterizzato dall’enzima CBDA-sintetasi, che contrassegna la canapa destinata a usi agroindustriali e terapeutici) e il chemiotipo THC (caratterizzato dall’enzima THCA-sintetasi, presente nelle varietà di Cannabis riservate alla produzione di droghe e farmaci).
La comprensione delle differenze chimiche esistenti tra i fitocomplessi (l’insieme delle molecole che costituiscono un estratto) delle diverse varietà di Cannabis risulta un fattore fondamentale per la previsione e lo studio dei suoi effetti biologici.
Nonostante oggi la canapa sia spesso associata ad un utilizzo ricreativo o di abuso, sono diversi gli studi che hanno dimostrato i possibili campi di impiego a livello fitoterapico, tra i quali l’ambito cutaneo.
Uno dei principali composti attivi della pianta, il THC, si ritiene eserciti i suoi effetti clinici come agonista dei recettori cannabinoidi 1 e 2 (CB1 e CB2). Questi recettori sono diffusi in tutta la cute. Inoltre, altri fitocannabinoidi presenti in Cannabis sativa L., come il CBD e la Δ9-tetraidrocannabidivarina, possono agire come antagonisti del recettore CB1, modulando/contrastando gli effetti del THC. Gli effetti correlati alla modulazione di questi recettori a livello cutaneo sono solo parzialmente chiariti.
Complessivamente oggi, l’uso di marijuana medica per le patologie cutanee soffre di una scarsità di evidenze scientifiche che ne supportino l’utilizzo. In generale, le indicazioni approvate si basano su singoli casi clinici o prove circostanziali. In questo contesto si inserisce uno studio pubblicato dal nostro laboratorio di Farmacognosia, volto a valutare gli effetti di Cannabis a livello cutaneo, su colture di cheratinociti e fibroblasti umani, due delle principali tipologie cellulari presenti a livello epidermico.
Il processo infiammatorio è alla base di numerose patologie cutanee (come acne, psoriasi, e dermatiti), è quindi di fondamentale importanza trovare preparati o molecole in grado di ridurre l’infiammazione in questo tessuto, spesso soggetta a stati di cronicizzazione.
Questo lavoro ha dimostrato che l’estratto di Cannabis sativa L., a basso contenuto di THC (ma ricco di CBD, altri cannabinoidi e flavonoidi), è in grado di ridurre il rilascio di IL-8 e MMP-9, due mediatori coinvolti nelle infiammazioni cutanee. In particolare, CBD ha avuto un ruolo importante nel modulare questi effetti, anche se altri componenti dell’estratto riducono l’espressione genica di diversi geni pro-infiammatori, rendendo l’estratto, in toto, un preparato di maggior interesse per lo studio di nuovi prodotti in grado di contrastare le infiammazioni della cute.
È importante ricordare che, in soggetti predisposti, l’uso di Cannabis a livello cutaneo può indurre reazioni allergiche come prurito, dermatite e orticaria, valutabili con scratch test.
Inoltre, il consumo ricreativo, attraverso l’inalazione di fumo di Cannabis, è associato ad un maggior rischio di sviluppare cancro a livello orale, oltre che ad una maggior rischio di esposizione al virus del papilloma umano (HPV) e di candidosi orale.
In attesa che si raccolgano maggiori prove per un uso fitoterapico cutaneo, nonostante i risultati positivi, la riduzione del dolore rimane attualmente una delle indicazioni più accettate per l’uso di questa risorsa vegetale, tuttavia le applicazioni topiche di preparati di Cannabis meritano sicuramente ulteriori approfondimenti.
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