In uno dei primi post di questa serie Ivano Eberini ha parlato del comunicare il fallimento. Vorrei continuare in quest’ambito ponendo l’accento su alcuni aspetti che mi sollecitano in modo particolare.
Formulare un’ipotesi e poi, attraverso prove/esperimenti, verificarla – o smentirla: chissà quante volte tutti abbiamo citato questa definizione del modo di procedere della scienza. Fa però parte dello spirito dei tempi che la seconda alternativa, quella della smentita, venga o trascurata o apertamente osteggiata.
Non solo è pressoché impossibile pubblicare un articolo scientifico che contenga solo risultati negativi – ad esempio, una lista di trattamenti che non sortiscono alcun effetto – ma è difficile dare spazio ai risultati negativi accanto a quelli positivi – accanto all’unico o ai pochi trattamenti che hanno sortito un effetto. Il messaggio tende ad essere: “Funziona – questa sostanza, questa procedura, questa condizione funziona”. Non si è neppure portati a tracciare i confini di questo ‘funzionare’: ad esempio, per la descrizione di una tecnica di analisi, è infinitamente più facile imbattersi in stringati protocolli, a volte nella forma di foglietti di istruzione di kit di reagenti ready-made, piuttosto che in lunghi resoconti sulla valutazione sistematica di molte variabili fino ad ottimizzare la procedura. Desueta, insomma, l’impostazione dell’articolo più citato nella letteratura scientifica (Lowry et al. JBC 1951; 193: 265–75), undici pagine di grafici e tabelle per la messa a punto di un dosaggio di proteine: pubblicato nell’anno in cui sono nata, era davvero un’altra epoca.
E con questo torno al punto da cui ero partita, lo spirito dei tempi. Non è la riflessione della filosofia a negare valore alle conoscenze in negativo, al “So/Ho imparato che non è così”, tutt’altro: secondo Popper, il progresso scientifico consiste nella progressiva eliminazione degli errori piuttosto che nell’accumulo di certezze. Dall’epistemologia alla teologia, dal XX al III secolo: Plotino, nell’impossibilità di comprendere e descrivere ciò che Dio è, aveva scelto la via negativa ovvero l’enumerazione di tutto ciò che Dio non è. Nella direzione dei valori e dei sentimenti, invece che della conoscenza, il verso di Montale, da cui ho preso il titolo per questa nota, recita: “Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.” L’ultimo esempio che voglio portare viene dal marketing, in cui sempre più spesso si qualificano i prodotti attraverso ciò che non contengono – no OGM, senza zuccheri aggiunti, nichel-free.
Quindi: sapere che qualcosa non è così è una parte della conoscenza, allo stesso titolo del sapere che quella stessa cosa è cosà, e in contrapposizione al non sapere se sia così o cosà – o chissà come.
D’altra parte, mentre non si conferma l’ipotesi da cui si era partiti, assai spesso si fanno osservazioni che suggeriscono nuove ipotesi: si fanno involontarie scoperte, o almeno ci si mette nella condizione di farle, purché non ci si limiti a scartare le prove del fallimento, stizziti o sfiduciati. Fleming scoperse la penicillina partendo da un guaio – una cultura inquinata. Colombo scoperse l’America partendo un grosso sbaglio – un errore del 100% nel valutare la distanza tra coste occidentali dell’Europa e coste orientali dell’Asia. Li ricordiamo non per quello che li portò a sbagliare ma per quello che dai loro sbagli seppero trarre in positivo.
da Wiki: Quello generalmente conosciuto come principio di falsificabilità (dal tedesco Fälschungsmöglichkeit, traducibile più correttamente come "possibilità di confutazione") è il criterio formulato dal filosofo contemporaneo Karl Popper per separare l'ambito delle teorie controllabili, che appartiene alla scienza, da quello delle teorie non controllabili, da Popper stesso identificato con la metafisica. Modello interpretativo della scienza basato sull'errore: quanto più si sbaglia, quanto più si elaborano nuove teorie che si rivelano fallaci, tanto più è possibile circoscrivere l'orizzonte della verità, in maniera analoga all'evoluzione biologica.
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