Nuove strategie per il trattamento dell’ipercolesterolemia familiare

Le malattie cardiovascolari sono tra le principali cause di morte nel mondo; elevati livelli di lipidi circolanti, sia per causa genetica, sia per lo stile di vita scorretto, sono tra i principali fattori causali associati alla comparsa di infarto al miocardio e ictus. Da circa un secolo, la ricerca di base preclinica e la farmacologia clinica si adoperano per migliorare le conoscenze e identificare strategie per controllare le dislipidemie.  

Dagli anni Ottanta, con l’avvento delle statine, ad oggi, l’armamentario terapeutico conto le dislipidemie si è ampliato, con small molecules in grado di complementare le statine come ezetimibe e più recentemente i farmaci biologici quali gli inibitori di PCSK9 (PCSK9i). Più recentemente il silenziamento di mRNA coinvolti nella sintesi di mediatori chiave del metabolismo delle lipoproteine, attraverso oligonucleotidi antisenso (ASOs) o small interefering RNAs (siRNA) è emerso come una strategia efficiente e di lunga durata per diverse forme di dislipidemia, comprese quelle su base genetica.

Nonostante oggi siamo in grado di ridurre attraverso una terapia combinata più dell’80% i livelli di LDL-C in soggetti ad alto rischio, esiste uno specifico gap nel trattamento dei pazienti con ipercolesterolemia familiare omozigote (HoFH), dove le normali strategie ipocolesterolemizzanti sono poco efficaci. Infatti, il loro meccanismo d’azione è legato all’aumento dell’espressione del recettore delle LDL, che tuttavia nei pazienti HoFH risulta disfunzionante e li espone ad un elevato rischio di infarto anche in età adolescenziale.

Questi pazienti hanno a disposizione la possibilità di sottoporsi a LDL-Aferesi (una sorta di dialisi, che sottrae LDL dal plasma) che tuttavia impatta notevolmente la qualità di vita, oppure quella di utilizzare lomitapide, che inibendo MTP blocca la sintesi delle lipoproteine. Quest’ultimo approccio, tuttavia, espone il paziente ad un aumento del rischio di steatosi epatica, parametro che va monitorato in continuo.

Recentemente è emerso un nuovo trattamento per i pazienti HoFH, che in modo indipendente dal recettore LDL, riduce i livelli di LDL-C. Si tratta di Evinacumab, un anticorpo monoclonale disegnato per riconoscere Angiopoietina-like 3 (ANGPTL3), una proteina normalmente coinvolta nell’inibizione delle lipasi lipoproteica ed endoteliale.

Evinacumab è in grado di ridurre del 76% i livelli di trigliceridi a digiuno e del 23% i livelli di colesterolo LDL; questo farmaco è approvato nella terapia dei soggetti HoFH ed ha notevolmente migliorato la prognosi di questi individui.

L’identificazione di ANGPTL3 e i risultati di Evinacumab, hanno spinto la ricerca farmacologica verso la valutazione di altre strategie mirate contro ANGPTL3 tra cui quella del suo silenziamento genico a livello epatico. 

Vupanorsen è un ASO disegnato per riconoscere e silenziare l’mRNA di ANGPTL3 ed ha prodotto una riduzione di circa il 25% dei trigliceridi a digiuno e del 15% dei livelli di colesterolo LDL. Il suo sviluppo clinico, tuttavia, è stato interrotto in fase II perché è stato osservato un aumento delle transaminasi e l’insorgenza di steatosi epatica, sollevando dubbi sulla possibilità di utilizzare ANGPTL3 come target farmacologico. È importante notare come la steatosi non sia mai stata riscontrata nei pazienti con mutazioni loss of function per il gene Angptl3, analogamente gli studi iniziali con altre strategie di gene silencing tramite i siRNA ANGsiR10, ARO-ANG3 non hanno mostrato la presenza di problematiche epatiche.

Queste differenze hanno aperto molte domande sul ruolo fisiopatologico di ANGPTL3 a cui abbiamo deciso di rispondere attraverso l’utilizzo di profilazione omica di modelli sperimentali privi di ANGPTL3 sottoposti a differenti regimi dietetici. Da questi studi ci aspettiamo di comprendere meglio il ruolo dell’inibizione di ANGPTL3 ed il riflesso che potrebbe avere sul trattamento delle dislipidemie resistenti ad altri farmaci.

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