Il rapporto con il proprio corpo e con il cibo è un problema per milioni di ragazze adolescenti. La paura di ingrassare e di non essere accettate per come si è, il continuo bombardamento mediatico di un determinato modello estetico che induce ad associare la bellezza fisica con una magrezza malsana, un temperamento vulnerabile ed un carattere ancora fragile predispongono milioni di ragazze allo sviluppo di una patologia psichiatrica ancora negletta: l’anoressia nervosa.
Questo disturbo alimentare inizia con una dieta restrittiva per perdere peso, combinata con un’esagerata attività fisica, e progredisce in una spirale fuori controllo, in cui la gestione maniacale del cibo e i risultati dell’esercizio intenso sono estremamente gratificanti per il soggetto, rafforzando così il comportamento di dieta restrittiva, anche a fronte di una grave emaciazione.
La patologia colpisce circa l’1-2% della popolazione mondiale e ha un’incidenza nove volte maggiore tra le donne rispetto agli uomini. Il tasso di mortalità è il più alto tra tutti i disordini psichiatrici ed è pari allo 0,56% annuo. L’esordio di questa patologia complessa e multifattoriale avviene principalmente in un periodo di età collocabile fra i 15 e 25 anni, fase di transizione dello sviluppo umano nel corso della quale l’individuo si prepara alla vita adulta attraverso una serie di stravolgimenti fisici, ormonali ed emotivi. Infatti, durante l’adolescenza, il cervello subisce cambiamenti importanti e non avendo ancora raggiunto la completa maturazione è altamente vulnerabile alle influenze esterne.
Nonostante tali evidenze cliniche, l’elevata incidenza e l’alto tasso di mortalità, ad oggi non esistono trattamenti farmacologici accettati per l’anoressia nervosa: questo riflette, quindi, la scarsa conoscenza in merito alla sua eziologia, ai fattori neurobiologici che concorrono all’insorgenza di questo disturbo alimentare.
Oltre alla mancanza di una terapia farmacologica efficace, molto spesso anche gli interventi psicosociali sono inadeguati e la percentuale di ricaduta è alta (circa il 50% delle pazienti viene nuovamente ricoverata dopo un anno dalla guarigione).
La comunità scientifica ipotizza che un alterato equilibrio dei meccanismi cerebrali di ricompensa ed inibizione, fisiologicamente attivati dal cibo, accoppiato a variazioni dell’umore, tipiche delle giovani donne, ed a cambiamenti endocrini cooperino al rifiuto di mantenere un peso corporeo normale.
In questo ambito, scopo della nostra ricerca, grazie ad un finanziamento di Fondazione Cariplo, è cercare di comprendere i fattori neurobiologici alla base della motivazione a persistere in comportamenti di ridotta assunzione di cibo nonostante l’emaciazione. In particolare, l’ipotesi che vogliamo verificare è se l’iperattività fisica accoppiata alla restrizione calorica possa portare alla condizione patologica attraverso un’alterata comunicazione fra organi periferici, in particolare i muscoli scheletrici, e il circuito cerebrale della ricompensa. La non corretta comunicazione fra periferia e sistema nervoso centrale potrebbe contribuire a compromettere le capacità cognitive del soggetto rendendo le pazienti incapaci di uscire dal ciclo vizioso di un apparente benessere. Secondo obiettivo, ma non meno importante, è cercare di capire quali cicatrici a livello molecolare lascia questa patologia. Capire cosa rimane alterato a livello cerebrale nonostante il recupero fisico è fondamentale per cercare di evitare il rischio di ricaduta.
Questo approccio inter-organo è volto all’individuazione di nuovi bersagli farmacologici per la cura di una patologia psichiatrica ancora poco riconosciuta ma altamente diffusa nel tessuto sociale, tanto da essere definita un’emergenza sociale.
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