Che stress, che stress, che stress di giorno!

Nel mio precedente articolo siamo entrati nell’affascinante mondo del rapporto cuore-cervello introdotti dalle parole di Charlie Chaplin. Come ricordavamo di recente, accanto ai classici fattori di rischio cardiovascolare, ne sono stati aggiunti di nuovi tra cui le malattie neuropsichiatriche, i disturbi dell’umore e non da ultimo, lo stress. Tutti questi sono in grado non solo di accelerare l’inizio e la progressione delle malattie cardiovascolari, ma anche di modificarne la risposta ai trattamenti farmacologici.

Proprio lo stress è il tema di questo intervento che trae il suo titolo da un celebre verso del brano “Ma la notte no” di Renzo Arbore. Dobbiamo ricordare innanzitutto che, per definizione, lo stress è la risposta fisiologica dell’organismo a qualsiasi cambiamento dell’ambiente esterno, a cui il nostro corpo risponde per cercare di rispondere alla nuova situazione. Questa risposta fisiologica è definita “eustress” o stress buono ed è un bene che esista, dato che ci permette di affrontare situazioni difficili e spesso di superare ostacoli che sembravano inizialmente insormontabili. Davanti ad una situazione difficile il battito cardiaco accelera, la pressione sanguigna sale, aumenta la sudorazione e sparisce l’appetito, tutto al fine di migliorare temporaneamente le performances del corpo. Queste variazioni così forti vengono gestite dall’organismo solo per il tempo necessario ad affrontare la situazione che abbiamo davanti ed è in seguito necessario che segua un periodo di compensazione per ritrovare l’equilibrio. Purtroppo nella vita frenetica di oggi ciascuno di noi, cercando di districarsi tra i mille impegni e scadenze e di conciliare lavoro o studio con gli impegni famigliari, è sottoposto quotidianamente e più volte al giorno a fattori stressanti. È diventata un’abitudine dire, e ripetere più volte al giorno, “che stress!” tanto da considerarla una normalità. In realtà lo stress cronico ha un impatto deleterio sul nostro organismo.

Quando le situazioni di stress si moltiplicano nel tempo, diventando addirittura giornaliere, allora il corpo fatica a ritornare ad una situazione basale e questo dà luogo a pesanti conseguenze. Non a caso l’incidenza di insonnia, emicrania, difficoltà di concentrazione ma anche impotenza, gastrite e patologie metaboliche correlabili allo stress sono in costante aumento nella nostra società, con un peso non indifferente sulla salute pubblica e sul bilancio sanitario. Tuttavia è noto da tempo che ognuno di noi ha una differente risposta allo stress e molte ricerche si sono focalizzate sulla comprensione delle basi biologiche di questo. Sono state individuate da tempo mutazioni a carico di alcuni geni del sistema nervoso centrale le quali, se di per sé non causano alcuna manifestazione patologica, in presenza di fattori ambientali quali appunto lo stress possono scatenare l’insorgenza di alcune malattie. Questa interazione è definita gene-ambiente e nell’ambito della ricerca traslazionale sta crescendo l’interesse nel voler comprenderne il ruolo anche nelle patologie cardiovascolari. 

Data l’attenzione che l’Unità “Asse Cuore-Cervello: meccanismi cellulari e molecolari” del Centro Cardiologico Monzino, diretto da Silvia Barbieri e da Elena Tremoli, presso cui sto svolgendo attualmente la mia attività di ricerca, dedica all’identificazione delle basi biologiche che sottendono all’associazione tra patologie del sistema nervoso centrale e cardiovascolare, abbiamo condotto uno studio per indagare se lo stress, un fattore ambientale, sia in grado di interagire con  una mutazione in eterozigosi a carico del gene BDNF nel predisporre al rischio trombotico.  

Sorprendentemente abbiamo osservato che solo in presenza della mutazione lo stress sub-cronico è in grado di alterare il numero e la funzionalità delle cellule circolanti, in particolare delle piastrine, e di favorire il processo della coagulazione con aumentata predisposizione alla trombosi. In definitiva, le due condizioni, polimorfismo genico ed esposizione ambientale allo stress, si sostengono a vicenda nell’aumentare il rischio cardiovascolare, avvalorando l’ipotesi iniziale dell’importanza dell’interazione gene-ambiente anche nelle patologie cardiovascolari. Questo studio è di grande importanza in quanto l’identificazione di pazienti portatori di geni “vulnerabili” potrebbe essere utile per identificare nuove strategie per prevenire e curare le malattie cardiovascolari.


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