Differenze di sesso nei fattori associati all’aderenza alla terapia con statine

Sono Elena Olmastroni, dottoranda iscritta al terzo anno del corso in Scienze Farmacologiche Biomolecolari, Sperimentali e Cliniche, e svolgo la mia attività di ricerca presso il Servizio di Epidemiologia e Farmacologia Preventiva (SEFAP) dell’Università degli Studi di Milano. Tra i principali obiettivi del SEFAP vi è la promozione e lo svolgimento di attività di ricerca nel campo della farmacoutilizzazione (studio del profilo di utilizzo dei farmaci e appropriatezza prescrittiva), della farmacoepidemiologia e della farmacovigilanza.

Recentemente, ci siamo occupati di un problema estremamente radicato e quanto mai carente di una piena comprensione delle cause e delle eventuali soluzioni: il problema dell’inadeguata aderenza e persistenza al trattamento farmacologico cronico nella pratica clinica.

“Drugs don’t work in patients who don’t take them” sono le parole ormai quasi leggendarie dell’ex chirurgo generale statunitense C. Everett Koop. Non solo “i farmaci non funzionano nei pazienti che non li assumono”, ma anche quando questi vengono assunti non seguendo esattamente le indicazioni del medico, si possono creare alterazioni situazione-specifiche nel rapporto rischio/beneficio, sia per ridotto beneficio, sia per aumentato rischio, che per entrambe le condizioni. 

Le patologie cardio-cerebrovascolari costituiscono, tutt’oggi, la principale causa di mortalità e morbosità nei paesi industrializzati e rappresentano un onere crescente per i relativi servizi sanitari nazionali sul piano clinico, economico e sociale. Nonostante la prescrizione diffusa di terapie ipolipemizzanti altamente efficaci (come gli inibitori dell’HMG-CoA reduttasi, o statine), gran parte della popolazione ha livelli di colesterolo LDL più elevati rispetto ai valori consigliati. Il fallimento nel raggiungimento degli obiettivi lipidici è stato attribuito a una varietà di cause, ma probabilmente la più rilevante è rappresentata dalla scarsa aderenza al trattamento ipolipemizzante.

La gestione di una condizione asintomatica come la dislipidemia rappresenta infatti una sfida complessa per assicurare l’aderenza ottimale alla terapia. D’altra parte, poiché i risultati sono direttamente correlati all’approccio alla terapia da parte del paziente, quando questa non sortisce gli effetti attesi l’aderenza deve essere il primo fattore valutato dal medico.

Tra i fattori detrimenti per una buona aderenza, il genere ha un ruolo rilevante: una revisione sistematica su 18 studi ha indicato che nella maggior parte di essi le donne mostravano un rischio fino al 10% maggiore di interrompere la terapia con statine e fino al 26% di essere scarsamente aderenti alle indicazioni del medico. Difatti, è stato dimostrato che, nello specifico delle terapie cardiovascolari, anche se in generale assumono più farmaci rispetto agli uomini, le donne non mostrano la stessa attenzione nell’adottare le terapie raccomandate dalle linee guida.

Sulla scia di queste evidenze osservazionali, abbiamo condotto uno studio per valutare se alcune caratteristiche note per influenzare l’aderenza, come l’età o la presenza di patologie concomitanti, avessero un impatto diverso nei due sessi. Ricavando le informazioni su circa 600.000 uomini e donne, utilizzatori incidenti (naïve) di statine, arruolati dai database amministrativi della regione Lombardia, abbiamo osservato che l’aderenza a questa terapia risultava inadeguata in entrambi i sessi, con le donne che avevano una maggiore probabilità di interrompere o essere meno aderenti.

Durante il primo anno di terapia, i giorni in trattamento erano minori per le donne (41% vs 48% di copertura annuale), così come era maggiore la percentuale di soggetti che interrompevano la terapia (85% vs 77%). Abbiamo, inoltre, riscontrato differenze sesso-specifiche sull’impatto di alcuni fattori associati ad aderenza non ottimale. Un esempio è costituito dal fattore età. Rispetto alla fascia 50-80 anni, la percentuale di soggetti aderenti (che abbiamo definito come quegli individui con almeno l’80% del periodo di osservazione coperto dalla terapia) era più bassa nei più giovani e negli anziani.

È noto come i più giovani si percepiscano a basso rischio di sequele gravi da iperlipidemia, e hanno quindi più probabilità di non essere aderenti; questo è presumibilmente più rilevante per le donne, che hanno una migliore condizione di salute e una minore prevalenza di fattori di rischio cardiovascolare rispetto agli uomini della stessa età. Negli anziani, d’altra parte, una generale riduzione dell’aderenza può essere conseguente a comorbidità, politerapia e disfunzione cognitiva che caratterizzano questo strato della popolazione, soprattutto quella maschile. Infatti, nella nostra osservazione, se inizialmente gli uomini erano più aderenti delle donne (25% vs 20% tra 51 e 60 anni), la relazione si invertiva più tardi nella vita (24% vs 30% tra 71 e 80 anni).

Con l’aumentare dell’età e dopo la menopausa, le donne probabilmente sviluppano una maggiore consapevolezza del proprio stato di salute, e si mostrano più proattive nella ricerca e acquisizione di informazioni relative alla salute, che le incoraggia a essere più conformi al trattamento rispetto agli uomini. Altri fattori avevano un’entità d’effetto differente tra uomini e donne: il trattamento con statine più potenti o l’assunzione concomitante di farmaci antipertensivi determinavano una maggiore probabilità di aderenza ottimale negli uomini (rispettivamente 22% vs 19% e 34% vs 22%), mentre la storia pregressa di eventi cardiovascolari o la politerapia erano predittori più impattanti nelle donne (+14% e +11% rispetto al campione maschile).

La scarsa aderenza alla terapia con statine è un problema globale che contribuisce al peggioramento della malattia cardiovascolare, all’incremento della mortalità e all’aumento dei costi sanitari. Questi risultati invocano la responsabilità dei medici per un intervento rapido, concentrato in maniera particolare nei primi mesi dall’inizio della terapia in cui risulta fondamentale riconoscere tempestivamente i soggetti a rischio di non-aderenza, e personalizzato. Difatti, un intervento differenziato tra i due sessi, ad esempio negli uomini attraverso una semplificazione del regime terapeutico e nelle donne attraverso una comunicazione più orientata ai rischi associati al mancato controllo dell’ipercolesterolemia, potrebbe determinare benefici clinici più rilevanti.

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