HIV/AIDS nel 2020, un nemico ancora attuale

Foto da sergey mikheev on Unsplash

Il primo dicembre si è celebrata la giornata mondiale contro l’AIDS. Fa uno strano effetto parlare di virus di questi tempi. Forse ancora di più parlare di altri virus. Se da un lato una marea d’informazione su SARS-CoV-2 e COVID19 ha sommerso tutto il globo al punto da trovare un nome a questo fenomeno (infodemia per l’OMS), catalizzando l’attenzione di chiunque, dall’altro potrebbe essere considerato fuori luogo portare al tavolo della discussione un altro problema di natura virale. Ma le battaglie si combattono anche nell’ombra creata dalla pandemia. E il primo dicembre ci ricorda che con il virus dell’HIV non possiamo e non dobbiamo abbassare la guardia, perché ci si può curare ma ancora non si guarisce.

La domanda più ricorrente riguarda il perché, dopo tanti anni, ancora non siamo in grado di guarire l’HIV. La risposta, purtroppo, non è semplice. In un post precedente, avevamo parlato del perché HIV è così difficile da eradicare una volta che ha infettato una persona e di quale sia la strategia più studiata nei laboratori – compreso il nostro – per cercare di risvegliarlo dallo stato di latenza in cui cade.

Avevamo parlato di reservoir, quel pool di cellule che ospita il virus in forma silente, completamente invisibile alle terapie antiretrovirali. Queste terapie sono efficaci nel sopprimere la replicazione virale, senza però riuscire nell’eliminazione. Ma dove si trova esattamente questo reservoir?

HIV infetta i linfociti T CD4+, chiamati anche linfociti helper. Questi globuli bianchi sono i direttori d’orchestra del sistema immunitario, i generali militari da cui partono le decisioni. Replicandosi in essi, HIV porta ad una lenta ma inesorabile diminuzione nel loro numero. Se vediamo al corpo umano come ad una città, i linfociti helper sono le forze di polizia, coloro che difendono i cittadini dal crimine. Un numero di helper sotto le soglie limite porta il sistema immunitario a non essere più in grado di rispondere ad un qualsiasi patogeno, anche quelli innocui per un individuo sano. Al di sotto di questa soglia, una persona viene considerata nello stadio di AIDS.

Se normalmente la conta linfocitaria è compresa tra i 500 e i 1500 CD4+ per microlitro di sangue, una persona in AIDS vede questo numero cadere sotto la soglia dei 200. Sempre pensando alla città, le forze di polizia non hanno più abbastanza poliziotti e anche il ladro principiante ha il via libera per fare danni. Tra l’inizio dell’infezione da HIV ed il sopravvento dell’AIDS possono passare molti anni, durante i quali una persona può anche non accorgersi di essere sieropositiva, trasmettendo il virus tramite comportamenti sessuali non protetti e la condivisione di aghi, oltre ad altre vie di trasmissione minori. 

In un regime di trattamento con farmaci antiretrovirali, lo stadio di AIDS non sopraggiunge, ma… c’è un ma. Anzi due. Il primo è che questi farmaci vanno presi ogni giorno, per tutta la durata della vita. Se l’aderenza alla terapia è massima, il virus viene completamente represso e la sua replicazione tenuta sotto controllo. Se i farmaci non vengono assunti correttamente, il virus torna a replicarsi. Il secondo è che questi farmaci non raggiungono tutte le persone sieropositive. Nell’Africa Subsahariana, dove è concentrato il 70% dei casi odierni, i farmaci, nel 2012, raggiungevano soltanto 1 persona su 3. La risposta a questo problema non è né semplice né intuitiva. Barriere politiche, sociali ed economiche costituiscono un quadro fragile e precario che rischia di peggiorare ancor di più in periodi come questo di pandemia, durante i quali le risorse vengono dirottate verso altre urgenze.

Il problema è dunque duplice: c’è una terapia, ma non un vaccino. Ci sono i farmaci, ma non arrivano ovunque. I mezzi a nostra disposizione sono la ricerca scientifica e la diffusione della conoscenza, per abbattere muri e pregiudizi riguardanti la sfera dell’AIDS.

Prima ho semplificato un po’ la questione dicendo che da HIV ancora non si guarisce. Fino al 2008, nessuno ci era riuscito. Poi una persona è stata dichiarata libera dal virus. A lui se n’è unita un’altra, la cui cura è stata riportata in un articolo scientifico qualche mese fa. Due su 70 milioni, una percentuale infinitesimale. Ma è anche vero che due è enormemente maggiore di zero. Abbiamo dimostrato che guarire da HIV è possibile. Per raggiungere l’obiettivo dettato dall’OMS della fine dell’epidemia entro il 2030, dobbiamo dimostrare che è anche praticabile, ovunque.


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