Nuovo coronavirus e vecchi rimedi: la clorochina?

Come si cura COVID-19? Probabilmente è una domanda che molti di noi si sono posti nelle ultime settimane e nonostante nessun trattamento specifico sia ancora stato ufficialmente approvato, numerose terapie sono attualmente in fase di studio. Una di queste è la clorochina, una sostanza la cui storia rappresenta una bella lezione del ruolo della Farmacognosia nella scoperta di nuovi agenti terapeutici. Cerchiamo allora di fare chiarezza e analizziamo falsi miti e reali potenzialità del revival di un vecchio farmaco.

«Era il XVII secolo e la contessa Ana de Osorio Chinchón, moglie del viceré del Perù, soffriva di febbri intermittenti. Affidandosi alla saggezza degli indigeni riuscì a guarire grazie ad un rimedio tradizionale, la corteccia della quina. La nobildonna ne fu talmente entusiasta che in segno di gratitudine si adoperò per la cura degli indigenti di Lima e pubblicizzò con zelo il nuovo ritrovato nella natia Spagna». Una storia indubbiamente affascinante quella raccontata dal cronista Sebastiano Bado e anche Linneo ne rimase suggestionato, tanto che battezzò Cinchona il genere a cui appartiene l’albero della china. Una storia tanto affascinante quanto inventata di sana pianta, visto che al giorno d’oggi sappiamo che la povera contessa Chinchón morì in Spagna ben prima che il marito venisse inviato nel lontano e misterioso Perù.

Ciò che è vero, invece, è che grazie alle osservazioni etnofarmacologiche dei primi missionari gesuiti la corteccia degli alberi del genere Cinchona, in particolare C. officinalis L. (china grigia), C. calisaya Wedd. (china gialla) e C. pubescens Vahl (china rossa), venne usata per secoli come rimedio miracoloso contro le febbri malariche. Responsabile principale di tale effetto è il chinino, una sostanza isolata nel 1820 in grado di impedire la sopravvivenza del parassita che causa la malattia. In breve, un esempio di ciò di cui si occupa la farmacognosia, ovvero la branca della farmacologia che studia i prodotti di origine naturale che possono essere impiegati come medicamenti e ne individua i principi attivi.

Fotografia della corteccia degli alberi del genere Cinchona

Nonostante il fascino d’antan del Chinino di Stato e le innumerevoli vite che ha contribuito a salvare, il farmaco non era certo scevro di effetti collaterali, anche molto gravi. Ed è qui che è intervenuta la mano della chimica farmaceutica per farci giungere finalmente alla clorochina, un analogo del chinino più efficace e sicuro sintetizzato nel 1934 presso i laboratori Bayer. Un farmaco che ha avuto una rutilante carriera, tanto da essere stato somministrato secondo fonti dell’OMS al 95% dei bambini colpiti da malaria in Africa fra il 1995 e il 2004, ovvero sino al momento in cui le guarigioni non si sono ridotte in molti paesi, a meno della metà dei casi trattati, a causa dell’insorgenza di resistenze sempre più diffuse da parte del parassita. E dopo anni di onorato servizio come antimalarico, anche la clorochina è stata mandata in pensione, sostituita dall’artemisinina e congeneri, ancora una volta derivati da una pianta, l’Artemisia annua L., ma questa è un’altra storia.

Chinino
Clorochina

Che fare dunque della vecchia cara clorochina?

In campo farmaceutico si definisce riposizionamento una manovra finalizzata a ridare nuova vita a farmaci già in commercio per altre indicazioni d’uso o magari già ritirati poiché obsoleti, studiando trascurate potenzialità dei loro meccanismi d’azione per ricollocarli in altre categorie terapeutiche. Le prime evidenze degli effetti antivirali della clorochina risalgono agli anni ’60, quando in studi su Hepatovirus si ipotizzava un meccanismo di interferenza con il DNA dei patogeni in grado di impedirne la replicazione. Con gli anni si è scoperto come l’effetto fosse, invece, essenzialmente metabolico, ovvero il farmaco è in grado di modificare l’ambiente cellulare rendendolo sfavorevole all’ingresso e alla replicazione dei virus. Un effetto, quindi, non limitato ai virus a DNA, ma anche a virus a RNA come Flavivirus, Retrovirus e Coronavirus. Come se non bastasse, la clorochina è anche in grado di modulare l’attività del sistema immunitario (un effetto che ne ha permesso lo sfruttamento come antireumatico), riducendone le risposte eccessive e prevenendo le complicanze infiammatorie legate alle infezioni virali. Nel caso di COVID-19 i devastanti effetti sul polmone, per intenderci.

Il vero punto di svolta è arrivato però nel 2003, quando ai tempi della prima epidemia di SARS-CoV, Andrea Savarino, ora ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità, e colleghi pubblicarono sulla prestigiosa rivista The Lancet Infectious Diseases un lungimirante articolo in cui veniva proposta una tesi all’epoca del tutto speculativa, che tirava le somme di quanto osservato negli anni precedenti: grazie alle proprietà antinfiammatorie ed antivirali ad ampio spettro la clorochina poteva essere efficace anche contro la SARS. La conferma arrivò l’anno seguente, a epidemia ormai esaurita, con il lavoro di Van Ranste colleghi,che dimostrava in vitro l’efficacia della clorochina contro SARS-CoV con un elevato indice di selettività. Da allora numerosi studi, principalmente in vitro e qualcuno in vivo, hanno valutato con successo l’attività della clorochina verso il virus HIV-1, i virus influenzali di tipo A, il virus Zika e ovviamente i coronavirus responsabili della SARS.

Poteva la clorochina non tornare alla ribalta anche ai tempi del nuovo coronavirus? Et voilà: 4 febbraio 2020, Cell Research, viene pubblicato un articolo a firme cinesi che titola “Remdesivir and chloroquine effectively inhibit the recently emerged novel coronavirus (2019-nCoV) in vitro”. Non serviva altro che una preliminare evidenza di efficacia anche verso SARS-CoV-2, dai primi di febbraio almeno 20 studi clinici sono stati registrati nel Chinese Clinical Trial Registry e vengono portati avanti in numerosi ospedali cinesi, in primis quelli di Wuhan. Il 18 febbraio, a seguito dei primi incoraggianti risultati clinici, clorochina fosfato entra ufficialmente a far parte della sesta edizione delle “Linee guida per la prevenzione, diagnosi e trattamento della polmonite indotta dal nuovo coronavirus”, stilate dalla National Health Commision cinese.

Miracoli del riposizionamento: sperimentare per una nuova indicazione un vecchio farmaco già utilizzato e di cui già si sa molto dovrebbe accorciare significativamente i tempi necessari a renderlo disponibile per fronteggiare l’epidemia. Difatti, anche l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha da pochi giorni reso noto il parere favorevole espresso dalla propria Commissione Tecnico Scientifica per l’inserimento a carico del SSN dell’uso off label, ovvero per un’indicazione terapeutica differente da quella approvata, di clorochina e idrossiclorochina nel trattamento dell’infezione da SARS-CoV-2.

Siamo dunque davanti ad una concreta possibilità in più per affrontare la minaccia di COVID-19? La clorochina non è ovviamente una cura miracolosa e non manca di effetti collaterali, motivo per cui bisogna essere cauti. Un comunicato ANSA dell’ultim’ora riporta il caso di due anziani che negli USA si sono avvelenati a seguito dell’ingestione di dosi massicce di clorochina fosfato che detenevano come antiparassitario per acquari, il tutto dopo le recenti dichiarazioni del presidente Trump che hanno riportato in auge questo farmaco fra il grande pubblico statunitense.

Nell’ambito della ricerca scientifica siamo pienamente consapevoli dell’abisso che esiste fra i risultati ottenuti in laboratorio e quanto accade nella vita reale, per cui lasciamo alle conclusioni degli studi clinici l’ardua sentenza, ma per dirla con le parole dell’infettivologo francese Didier Raoult, salito alla ribalta per aver fatto nelle ultime settimane della clorochina la propria arma: «se i dati clinici confermassero i risultati biologici, la patologia associata al nuovo coronavirus diventerebbe fra tutte le infezioni respiratorie una delle più semplici ed economiche da trattare e prevenire». Ce lo auguriamo vivamente.


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